Pace - Redolfi Enrico

Benvenuti
Vai ai contenuti

Pace

Progetto di mostra sul tema: guerra - assenza di guerra - pace
Lo spazio dell'uomo e il sole che tarda a sorgere.
LA META ERA MOLTO REMOTA.
LA SI POTEVA SCORGERE CHIARAMENTE,SEPPURE ANCHE PER ME
QUASI INATTINGIBILE.
Commento alla mostra di Beppe Cavalleri.
É certo inadeguato e riduttivo definire “cronaca” la ricerca e la inquietudine che intrecciano ad una riflessione su temi della guerra e della pace queste pitture. Quasi mancassero di una prospettiva autonoma ed unificante, quasi fossero contaminazioni frettolose e devianti rispetto ad un itinerario rigorosamente astratto.

Già precedenti personali avevano reso evidente la ragione di un percorso che senza forzature velleitarie aveva permesso a questa pittura, astratta e informale, di misurarsi con la materialità dei temi e rapporti decisivi per la stessa vita quotidiana.

Non a caso, anche la attuale esposizione si apre con un contributo, Terra Dissestata, che, rappresenta, un momento alto di sintesi ed equilibrio dei motivi di fondo che percorrono variamente tutta l’opera: l’evolversi, ora pacificato, ora lacerante, di una dialettica tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, che si traduce nello sforzo di contenere e governare con la compattezza e il rigore della forma, l’agitarsi di un disordine e di una sofferenza, che corrode e consuma, dall’interno la terra e chi la vive.

La mostra colloca al secondo posto un dipinto del 1965, L’autunno angoscioso. Un’opera di gran lunga anteriore alla precedente, ma il disporla rovesciando ogni rapporto cronologico sembra fare di questo sentimento di angoscia, una presenza costante, assoluta, certo, fin dall’inizio un elemento di tensione e travaglio interiore che contribuirà, variamente declinato, al dissesto della terra.

Qui un’immagine di sofferta desolazione dilaga, senza fine e senza speranza: il cielo è intriso di terra che sembra, a tratti, pulsare e quasi scorrere su una linea di orizzonte che non si sa bene come e cosa possa distinguere e delimitare di quell’uniforme squallore.

Questo, lo spazio dell’uomo, si riempie di presenze inquietanti, enigmatiche, presagi e disagi profondi, lacerazioni e stridori, chiusure inquiete, recinti, muri di intolleranza, esclusioni.

Finché anche il sole, appena velato, si ritrarrà nel buio del nulla, si spegneranno i colori, resteranno le luci ingannevoli delle bombe che chiazze scure di aerei fanno cadere sulla terra.
Poi saranno i toni del grigio, freddi, plumbei, spogli, a preparare sudari di agonia per popoli interi.

Sono effetti collaterali delle bombe intelligenti, di guerre buone e progressiste.
Tutto si insterilisce in una visione sconnessa, aspra e dura, nessun motivo conduttore chiaramente ricostruibile, che non sia quello di una ragione smarrita, convulsa; quasi una meditazione cupa e tormentata; macchie rosse buttate senza un ordine apparente, non animano sussulti di vitalità, speranze, ma accentuano fremiti angosciosi in una desolazione impotente, il segno del dissesto che minaccia di sconvolgere la terra.

La denuncia della guerra non è dunque pretesto od occasione estemporanea di cronaca, è crisi di un equilibrio che si considerava raggiunto e consolidato col mondo, è inquietitudine e malessere esistenziale.

Finora il percorso che ha portato alla guerra è stato segnato da una progressiva spoliazione di luce, dalla negazione di spazi e, certo, da muri, recinti, sui quali non potevano che sventolare bandiere spurie e violente.
Perché ora questo è impellente: recuperare luce e serenità.

Se l’emergere dal dissesto era segnato dallo spegnersi del sole, qui tornano progressivamente i colori, insieme al bisogno di ordine ed equilibrio. Ma è tutto da costruire.
La parola “pace” comincia a correre per il mondo, a risuonare in tante lingue,  a superare il travaglio delle lacerazioni.
Appare la prima bandiera arcobaleno.

Non ha l’artificiosa, ipocrita compostezza delle manifestazioni da parata, retoriche quanto crudeli, con il loro carico di morte umanitaria, non ha ancora la regolarità ordinata di linee e di contorni geometrici, suggerisce più i segni di asprezze passate che promesse di serenità, né la parola pace vi si distende ordinata e rassicurante; si può solo intuire.

É un non finito, dunque, che deve parlare a tutti, specie a quanti hanno sempre taciuto, perché solo così può recuperare la dimensione universale e simbolica di segno di pace.

E la pace si costruisce, con il fare: non è dono gratuito, ma impegno programmatico diretto, e “L’impossibile da realizzare” ne è una metafora.
In quest’opera una bandiera di pace si alza come un albero, dalla terra, cresce su se stessa in sviluppo verticale, un faticoso costruirsi, per una impossibile “salita al cielo”.

L’arcobaleno inizialmente è scomposto nei suoi colori.
Ogni striscia si dispone, separata dalle altre, su un rettangolo bianco; sei in tutto, che si innalzano, partendo da terra, poggiando alla rinfusa una sull’altra in equilibrio precario, insidiato, che sembra ogni momento non poter più reggere. Solo i segni della parola “pace” in lingua araba, scritta verticalmente, riesce ad unire e consolidare tutti gli spazi a sostenerli fino in alto, dove le strisce finalmente si ricompongono, tutte, nell’armonia dell’arcobaleno.

Alla base dell’albero, quasi vere radici sotterranee, stanno delle mani, una da adulto, due da bambina, sembrano alimentare quest’albero, reggerlo, spingerlo verso l’alto quasi a recuperarne l’antico significato di ponte che si alza nel cielo, ma non vi sono interlocuzioni e sostegni su cui distendere e condividere il peso della costruzione.

Il dipinto L’impossibile da costruire riappare quasi in forma di trittico, avendo a lato due fotografie che si ritraggono specularmente: una figura di adulto, un uomo, in piedi, girato di profilo, guarda in lontananza un indefinito paesaggio, quasi a verificare la consapevolezza di un percorso.

Ed in primissimo piano una bambina, con una mano sul fianco, una figura, forse la madre, chinata all’altezza del suo viso, le parla, indica qualcosa, per aiutarsi tiene tese, allargate, le dita di una mano che richiama quella da adulto che stava alla radice dell’albero della pace.

Pare un rito di laica iniziazione, quasi una sacra rappresentazione nella quale alla bambina assorta altrove, la madre affidi il senso o il segreto di una missione o di un destino, qualcosa che solo a mani giovani di nuove generazioni può essere affidato.

Dal buio della guerra, i colori riaffiorano e si ricompongono in brandelli di pace, passano per il cielo, ancora si cercano avviluppati e quasi irriconoscibili, a mala pena si intravede la parola pace, ma finalmente è luce, per quanto convulsa e involuta, ripiegata su se stessa, ancora incapace di distendersi, ma è luce.
Questo sviluppo di colori veleggia con la leggerezza di un sogno, senza peso né gravità nello spazio compositivo, la sua capacità evocativa simbolica si pone in limpida evidenza.

Ma troppe ancora le genti e i popoli che non conoscono questa parola, non c’è ancora consapevolezza, il presagio di pace non riesce ancora a comporsi pur tra luminose pagine pittoriche.
Dei quadrati, ciascuno con un colore dell’iride, sovrapposti e degradanti in un gioco prospettico, l’uno all’interno dell’altro, sembrano concentrare su di sé tutta la luminosità dell’arcobaleno.

Al fondo si intravede la parola pace, ma non sai se la profondità di piani al cui interno è collocata la racchiuda per proteggerla o per allontanarla definitivamente.
Oramai la visione sembra farsi concreta, la luminosità è pace e la pace è la parola. Ma la parola deve ancora incarnarsi, nel sillabare di nuove generazioni, perché venga parlata e trovi eco e testimonianza presso i popoli e la loro capacità di costruirsi.

C’è una rinnovata speranza e fiducia nelle generazioni future, nel loro impegno ad operare per un nuovo alfabeto di pace, perché nulla è ancora acquisito definitivamente
ricompare il filo spinato, la minaccia della separazione, del recinto, della chiusura e sembrano di nuovo insidiati lo splendore e la luminosità dei colori della pace.

Ma un valore decisivo ha il nuovo trittico Fosforo illuminante.
Anche qui il riferimento immediato alla cronaca, ed è ancora cronaca di guerra, di distruzione: proiettili al fosforo sono stati usati nei bombardamenti degli USA in Iraq.

L’atmosfera torna cupa, grave, livida, a richiamare la mostruosità di una guerra mai placata.
Nel primo scomparto strisce verticali sembrano ripetere motivi comuni a diverse bandiere, ma si trasformano rapidamente in ossessionanti vessilli di morte, colori scialbi e sbiaditi, poi via via, lividi e cupi, si rivelano come tracciati di proiettili al fosforo.

Siamo lontani dalle bombe intelligenti della guerra jugoslava che (si diceva) distruggessero cose, ma risparmiassero persone, colpissero obiettivi militari e non civili (se non in modo, appunto, collaterale e involontario).

Ora la prospettiva è capovolta, i proiettili al fosforo sono “efficaci e versatili” assolvono a diverse funzioni: illuminano gli obiettivi, persone da colpire, hi è colpito avvampa e si scioglie fin nelle ossa, ma restano intatti gli abiti che veste.

L’ultimo scomparto del trittico evoca una possibile immagine di questo mondo al fosforo, l’uso della forma astratta stravolge i volumi, genera immagini da incubo, dove l’uomo è un ammasso di nulla, indecifrabile e dolente.

Il dissesto che è all’interno della terra, ora è dovunque, non più contenibile.
Come costruire, dunque, la pace?

Resta solo una speranza: lontana, come dice il dipinto, che conclude l’esposizione, L’attesa di un sole che sembra non uscire mai.

Dopo gli orrori del fosforo, questa speranza di sole introduce una promessa di serenità, quasi un sollievo a testimoniare ancora di una forza interiore sicura, composta e misurata.

Ma fino a che punto l’attesa di questo sole può diventare ancora speranza collettiva, arcobaleno di parole e di convivialità che raggiunga tutti i popoli?

Come può evolvere la dialettica, tutta aperta, irrisolta, tra l’attendere e il realizzare, tra il rassegnarsi o il tentare ancora l’impossibile?

Il sole che tarda a sorgere: la struggente dolcezza di questo dipinto, appena increspata da una sottile, pervasiva malinconia, sembra confinare la speranza in una dimensione più privata, personale, quasi intimistica, di fatale attesa.

Proprio il durare fiducioso e paziente dell’attesa di questo sole che non sorge finisce per diventare una risposta sostitutiva all’agire.

Non resta, dunque, che attendere la luce del sole.

Ma quale sole, se all’orizzonte la luce che si profila, a volte non è che l’avvampare orrendo di torce umane?

ENRICO REDOLFI
Abitazione: Viale Monte Campione 10, Seriate(BG) - Tel: 035 600077
Luogo di lavoro: Via Monte Campione, 9 - 24068 Seriate(BG)
Torna ai contenuti